Prometeo e Pandora - Civiltà Greca

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Zeus per vendicarsi di questo ulteriore affronto, ordinò a Efesto di forgiare una donna bellissima, la prima del genere umano, sulla quale i Venti alitarono lo spirito vitale. Tutte le dee dell’Olimpo le recarono doni meravigliosi. A questi doni, Zeus aggiunse un misterioso vaso chiuso che mai avrebbe dovuto essere aperto. La fanciulla fu chiamata Pandora, che in greco significa appunto che essa aveva ricevuto «tutti i doni».
Pandora fu mandata in dono al fratello di Prometeo, Epimeteo, che però la rifiutò. Zeus, più indignato che mai per l’affronto subito prima da uno poi dall’altro fratello, per punire Prometeo, lo fece incatenare mani e piedi al Caucaso e ordinò a un avvoltoio di divorargli ogni giorno il fegato, che però durante la notte ricresceva, così da rinnovare continuamente il tormento.
Epimeteo, dispiaciuto per la sorte del fratello, si rassegnò a sposare Pandora.
Pandora si rivelò tanto stupida quanto bella, perché sventatamente e per pura curiosità aprì il vaso donatole da Zeus, che mai avrebbe dovuto aprire. In quel vaso erano stati rinchiusi tutti i mali che possono tormentare l’uomo: la fatica, la malattia, la vecchiaia, la pazzia, la passione e la morte. Essi uscirono e immediatamente si sparsero fra gli uomini; solo la speranza, rimasta nel vaso tardivamente richiuso, da quel giorno sostenne gli uomini anche nei momenti di maggiore scoramento.
Con questa leggenda i Greci dimostravano l’origine della donna e giustificavano qualche giudizio poco riguardoso nei suoi confronti: in fondo essa era stata inviata da Zeus come punizione.
Fu Eracle a liberare dal tormento Prometeo, dopo che questi svelò che se Zeus avesse sposato Teti, la dea del mare, dalle loro nozze sarebbe nato un figlio che lo avrebbe cacciato dal trono, proprio come Zeus aveva fatto con Cronos e come Cronos in precedenza aveva fatto con Urano. Conosciuto il segreto, Zeus perdonò Prometeo e, per scongiurare definitivamente il pericolo che lo minacciava, si affrettò a sposare Hera, e fece sposare Teti a un mortale, Peleo.
Prometeo godé di un culto molto diffuso in Atene, tanto che la città gli dedicò delle feste pubbliche, le Prometheia, nelle quali si percorrevano le strade correndo con fiaccole accese per celebrare il più grande dono che Prometeo aveva fatto all’umanità: il fuoco.
PROMETEO E PANDORA
(Esiodo: le opere e i giorni)
"Sappi che tengono i Numi nascosto ogni bene che valga a sostentar la vita. Se no, col travaglio d’un giorno, agevolmente un anno campare ozïando potresti: staccar presto il timone potresti, ed appenderlo al fumo, dei buoi nulla varrebbe, dei muli ostinati il lavoro; ma Giove i beni ascose, per l’ira concetta nel cuore perché Promèteo, mente sottile, lo trasse in inganno.
Per questo egli tramò luttuosi cordogli ai mortali: nascose il fuoco; e il figlio sottil di Giapèto, di nuovo
a Giove lo rapì, per darlo ai mortali, celato entro una ferula cava tenendolo a Giove che avventa fulmini; e, irato, il Nume che i nuvoli aduna, gli disse:
«O di Giapèto figlio, maestro di tutte le astuzie, t’allegri tu, che il fuoco m’hai preso, m’hai tesa la frode; ma gran cordoglio, per te, sarà fra le genti venture: ch’io darò loro, in cambio del fuoco, un malanno che tutti accoglieranno con gioia, gran festa facendo al malanno»2. E, così detto, rise, degli uomini il padre e dei Numi; ed ordinò ch’Efèsto, l’artefice insigne, al piú presto,
terra mescesse con acqua, vigore ed umana favella poi v’infondesse, e forma di vergine amabile e bella, pari alle Dive immortali le desse; ed Atena, maestra d’ogni lavoro a lei fosse, di stare all’industre telaio; ed Afrodite, a lei sul capo infondesse la grazia, la tormentosa brama, le languide pene d’amore; e l’argicída Ermète, che l’anime guida, dispose che in lei mente infondesse di cagna, e costumi di frode. Disse; e ubbidirono tutti di Crono al possente figliuolo. Sùbito il Nume ambidestro famoso foggiò dalla terra, come voleva il Croníde, la forma di vergine bella;
la cinse, l’adornò la Diva dagli occhi azzurrini; le dive Grazie, e, Dea veneranda, Suada, monili d’oro alle membra intorno le strinsero; l’Ore dai vaghi crini, le cinser la fronte coi fiori che dà Primavera;
Pàllade Atena tutti dispose in bell’ordine i doni; e il Nume ch’Argo uccise, che l’anime guida, nel petto menzogne e furbi detti le infuse e costumi di frode, per volontà di Giove che tuona profondo; e facondia l’araldo dei Celesti le diede. E chiamò questa donna Pandòra; perché quanti Celesti han soggiorno in Olimpo, a lei diedero un dono che fosse cordoglio ai mortali.

Compiuto or questo inganno sottil, senza scampo, il Croníde mandò l’araldo pronto dei Numi, l’insigne Argicída, a Epimetèo, ché il dono gli offrisse; né quegli ricordo
ebbe che Prometèo predetto gli aveva che doni non accettasse mai dal Sire d’Olimpo, ma invece li respingesse: ché poi, non toccassero danni ai mortali: l’accolse; e poi comprese che aveva accattato il malanno. Ché pria vivean le stirpi degli uomini sopra la terra, dai mali immuni, senza gravosi travagli, lontano dai tormentosi morbi che gli uomini adducono a morte:
ché, tra i malanni, presto vecchiaia colpisce i mortali. Ma quella femmina il grande coperchio del doglio dischiuse, con luttuoso cuore, fra gli uomini, e i mali vi sparse.
Solo il Timor del futuro restò sotto l’orlo del doglio, nell’infrangibile casa, né fuori volò dalla porta, perché prima Pandora del vaso il coperchio rinchiuse, come l’egíoco Giove, che i nuvoli aduna, le impose. Ma vanno gli altri mali fra gli uomini innumeri errando, perché piena è la terra di triboli, il pelago è pieno. E vagolano morbi di giorno sugli uomini, ed altri giungon di notte, improvvisi, recando cordoglio ai mortali, muti, ché ad essi tolse la voce l’accorto Croníde: sicché, modo non c’è di sfuggire ai voleri di Giove.


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