Introduzione di Pontani 2 - Civiltà Greca

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L'angoscia che avvolge il dramma è addensata sin dall'inizio, nel prologo, in cui aleggia quell'aura d'incubo foriera di tempesta, che è un segreto eschileo. Medea già campeggia nelle parole della Nutrice: si profila una carica tragica di cui non si conosce il bersaglio, mentre se ne avverte la paurosa virtualità. Poi la deplorazione dell'infelicità umana (gli uomini trovano vane musiche nella gioia e non sanno incantamenti per lenire gli affanni) tocca un piano generico. Assai più oltre, sul declinare della tirata del Nunzio, che descrive con spettacolosa bravura lo scempio della figlia del re e di suo padre, ricorre il motivo dell'uomo ombra, suggello d'un'esperienza a tutti comune. D'altri motivi si può far cenno: dalla smemoratezza felice dei bimbi alla vanità della principessa, che appare nelle parole del Nunzio, dov'e una splendida gemma il tocco che la dipinge allo specchio.
Ma la tragedia è, si può dire, tutta nel carattere di Medea. Per la prima volta nel teatro greco per noi superstite la scena è dominata da una veemente passione femminile, analizzata con una sottigliezza di penetrazione che non ne disperde la potenza.
Medea è una creatura ferma; ha una durezza rocciosa, ha l'inflessibilità del ferro, l'ineluttabile sordità d'un flutto marino. Vive d'un odio che investe l'oggetto del tradito amore e i suoi nuovi parentadi e la vita stessa, trova accenti di rabbioso sarcasmo. Ha una sua dignità che le rende ossessivo il timore d'una derisione nemica, così come le fa rifiutare con sdegno l'insultante aiuto offertole da Giàsone. È lei che irride, a sua volta (la "pietà" di Creonte), e sdegna persino la competizione con Giàsone, bruciando gli argomenti causidici col fuoco di risposte sferzanti, che toccano i punti dolenti smontando gli orpelli delle parole.
Ma l'ebbra, allucinata fierezza d'una solitudine arbitra della vita sua e dell'altrui è anche coscienza d'una solitudine indifesa; l'audacia ha fatto dietro di lei un deserto di volti cari e di patria; l'oltraggio all'amore per cui tutto ha sacrificato le fa il vuoto dinanzi. Resta, e traspare un attimo, un femminile ricordo dell'amor vano, dei sensi. Proprio quella ferita nella elementare dedizione all'uomo rovescia il volto dell'amore in odio, e dal fondo dell'anima barbara si sprigiona la violenza della belva e balena nell'occhio inselvatichito, di toro. Non è più gelosia. Nella vendetta della belva tradita assomma l'essere intero in una tensione folle, che brucia la stessa maternità. Lucida ossessione monoideistica, che chiude l'adito a ogni senso di dismisura, e per ferire ignora le proprie assurde ferite.




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