Pitica III - Civiltà Greca

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AD AGESIA FIGLIO DI SOSTRATO
VINCITORE COL CARRO GUIDATO DA MULE IN OLIMPIA


I

Strofe

Sostegno al saldo atrio del talamo, confitte voglio auree colonne,
sí come per fulgida reggia:
da lungi visibile dev’essere il fronte
dell’opera impresa. — Se un uomo vincesse le gare in Olimpia;
se in Pisa dell’ara di Giove fatidica fosse ministro;
se lui Siracusa la illustre dicesse suo figlio: che lode,
che inno dei suoi cittadini potrebbe tal uomo evitare?


Antistrofe

Or sappia il figliuolo di Sostrato che cinto è il suo piede beato
da tale calzare. — Né in terra
né in curvi navigli pregio hanno virtudi,
se immuni da rischi; ma tutti rammentan gl’insigni travagli.
Agesia, e a te addicesi il motto, la giusta sentenza, che Adrasto
per Anfiarào, pel profeta figliuolo d’Iclèo, pronunciava,
quel giorno che lui con le fulgide cavalle la terra inghiottí.

Epodo

Sette fumavano roghi di spenti guerrieri; ed Adrasto
disse, al cospetto di Tebe: «Dei miei guerrier la pupilla
piango io: ben verace profeta, ben valida lancia di guerra».
E questo conviene ripetere per l’uomo ch’è re del mio carme.
Di tanto sono io testimone. Non io vago sono di liti,
non bramo contese; ma pure di ciò presto giuro solenne,
palese; ed a me lo concedono le Muse che miele han sui labbri.
II

Strofe

O Fintide, in fretta ora aggioga la forza per me delle mule,
si ch’io, sovra tramite sgombro
spingendo il mio cocchio, pervenga alla stirpe
remota d’Agèsia. Più ch’altre sanno esse varcar quella via,
poiché guadagnarono i serti d’Olimpia. Dischiudere ad esse
le porte si devon degl’inni: ché presso Pitàne, lunghesse
le rive d’Eurota, quest’oggi conviene si giunga per tempo.


Antistrofe

Pitàne, che, narrano, amata dal Cronio signore del pelago,
die’ vita alla parvola Evadne
dai riccioli azzurri. — La doglia materna
nel peplo ascondeva; e, venuto il mese fatale, spedí
per man de le ancelle la pargola ad Àpito. figlio d’Elàto,
degli Arcadi re, che abitava Fesàna, lunghesso l’Alfeo.
Qui crebbe; e per opra d’Apollo pria seppe l’incanto d’amore.

Epodo

Né sino all’ultimo eluse ad Àpito il germe divino..
Egli, premendo nel cuore furore indicibile, punto
da cruccio acutissimo, andò a Pito, per chiedere al Nume
consiglio nell’onta insoffribile. — Evadne, deposta la zona
di porpora e d’oro, e la càlpide argentea, sotto una macchia
cerulea, die’ a luce un fanciullo di mente divina — ad assisterla,
il Dio chioma d’oro le Moire e Ilizia benigna inviò.
III

Strofe

Dal grembo doglioso d’amore d’un subito Víamo a luce
appare. La madre dogliosa
a terra lo lascia. Ma, grazie a’ Celesti,
due draghi di glauca pupilla gli stettero a guardia, gli diedero
ristoro col succo dell’api purissimo. — E quando il monarca
da Pito rupestre alla reggia sul cocchio tornò, chiese a tutti
del pargolo nato ad Evadne. Dicea ch’era germe d’Apollo;


Antistrofe

dicea che sarebbe fra gli uomini famoso su tutti i profeti;
né mai la sua stirpe morrebbe.
Diceva cosi: rispondevano quelli:
né udito né visto l’avevano; e cinque eran giorni trascorsi. —
Ché il pargolo ascoso giaceva fra giunchi, fra impervi cespugli,
infuso le tenere membra dai raggi che porpora e gialli
piovean le viole. Onde a lui provenne il suo nome immortale.

Epodo

Or, quando Víamo il frutto spiccò d’Ebe, amabile Diva
ch’ à d’oro il serto, disceso di notte, fulgendo le stelle,
in mezzo all’Alfeo, l’avo suo Posidone e il vigile arciero
di Delo divina invocò, chiedendo per sé tale onore
che fosse al suo popol proficuo. Di contro suonò la parola
del padre veridica, e disse: « Su, figlio, incamminati dietro
al suon di mia voce, a una terra famosa per pubblici ludi ».
IV

Strofe

All’arduo pervennero eccelso dirupo del Cronïo, dove
di scienza profetica un duplice
tesoro gli diede: di súbito udire
ignara del falso una voce; e quando fosse Eracle giunto,
l’audace divin degli Alcidi rampollo, a fondare la festa
di popol frequente, e la norma solenne dei ludi, gl’impose
che presso l’altare sublime del padre fondasse un oracolo.


Antistrofe

Però gli lamidi famosi ne l’Ellade sono. E Fortuna
li segue, mentre essi, onorando
virtù, sopra tramite di luce procedono. —
Giudizio a ciascuno è il cimento; pur biasimo gittano gl’invidi
su chi primo il cocchio sospinse nei dodici giri, e le Grazie
su lui di bellezza profusero fulgor. Ma se gli avoli tuoi
materni, che furono, o Agesía, signori dell’alpe cillenia,
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Epodo

spesso di preci e di vittime copiose con animo pio.
gratificarono Ermete, araldo dei Numi, che regge
dei ludi le sorti, e gli agoni, e Arcadia la prode protegge:
Ermete ed il padre che tuona profondo, tua prospera sorte,
di Sostrato o figlio, tutelano. — Mi par che una cote sonora
la lingua m’affili, e mi spinga con gli aliti dolci del canto.
A Stinfalo pur l’ava mia nascea, la fiorente Metòpa,



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