Introduzione - Civiltà Greca

Vai ai contenuti
LA VITA
Nato intorno al 550 a.C. a luli, piccolo centro dell'isola cicladica di Ceo, Simonide esercitò inizialmente in questo luogo la sua attività di poeta, ma poi venne chiamato ad Atene da Ipparco, figlio di Pisistrato, il quale aveva radunato alla sua corte una nutrita schiera di artisti. Il soggiorno ateniese, durato fino all'uccisione del tiranno (514 a.C.) segnò per Simonide la prima tappa di un lungo errare, che lo condusse prima in Tessaglia, alla corte degli Scopadi e degli Alevadi, poi di nuovo ad Atene, al tempo delle guerre persiane (490-480 a.C.), e infine in Sicilia, presso lerone di Siracusa e Terone di Agrigento, la cui rivalità si dice che egli contribuì addirittura a comporre. Nell'isola mediterranea, in cui i regimi tirannici non erano stati spazzati via dal vento democratico, il poeta trovò la dimora più adatta alla propria personalità, e là concluse la sua esistenza in età avanzata, verso il 467 a.C. Secondo la tradizione fu sepolto ad Agrigento.
L'OPERA
Simonide si cimentò in quasi tutti i generi della lirica corale, e non solo in quelli, componendo inni, scolii, encomi, epinici, ditirambi ed epicedi, ma anche elegie ed epigrammi. Assai poco sappiamo sull'edizione alessandrina dei componimenti di queste poeta: l'unico dato relativamente certo è che i suoi epinici erano ordinati secondo il tipo di gara sportiva, e non in base alle località in cui si svolgevano i giochi, come accade invece nelle odi di Pindaro. Della sua vasta produzione rimangono circa 150 frammenti, in genere piuttosto brevi, ma un papiro pubblicato nel 1992 ci ha restituito circa 40 versi (assai mutili) di una lunga elegia composta in onore dei caduti ateniesi nella battaglia di Platea.
In realtà Simonide, a prescindere da qualunque valutazione di tipo moralistico, incarna quel nuovo tipo di professionista della poesia che è un prodotto delle profonde trasformazioni economiche e politiche in atto nel periodo: cosciente del valore che la sua maestria poetica (σοφία) assume in rapporto alla domanda della committenza, il poeta vi attribuisce un prezzo e la vende al miglior offerente, con quell’atteggiamento, insieme ironico e disincantato che, alla domanda se fosse preferibile la ricchezza o la σοφία, gli fece rispondere: «Non lo so: ma vedo che i σοφόi fanno la fila alle porte dei ricchi».
Questo pragmatismo simonideo, che a tratti sembrerebbe rasentare il cinismo, si traduce in una pessimistica visione dell’esistenza umana, in cui «non si sfugge alla morte che incombe su ciascuno» (fr. 15 Page) e in cui il repentino e imprevedibile mutare della sorte viene paragonato al volo di una mosca, che cambia continuamente la direzione del suo volo (fr. 16 P.). Tutti gli uomini, indipendentemente dalla condizione sociale, sono dunque soggetti a questa legge ineluttabile (fr. 15 P.), e tutti corrono senza rendersene conto verso quello che Leopardi chiamerà «abisso orrido, immenso» e cui egli dà il nome della mitica Cariddi (fr. 17 P.).
Da questa consapevolezza della precarietà di ogni cosa nasce il relativismo simonideo, che non è, al di là delle apparenze, facile opportunismo di un uomo senza ideali, ma realistica e lucida visione di un mondo dove non c’è più posto per gli eroi  A questa concezione si ispirano i celebri versi dell’encomio (secondo alcuni uno scolio) dedicato a Skopas (fr. 37 P.), che ci è stato tramandato nel Protagora di Platone (339a). In esso viene contestata una massima del ‘saggio’ Pittaco, secondo cui sarebbe difficile essere veramente ἀγαθός: per Simonide ciò non è difficile, ma addirittura impossibile, giacché «solo un dio questo dono può averlo, l’uomo no» (v. 7), ed è già tanto riuscire a non essere κακὸς, praticando la giustizia e rendendosi utile alla comunità dei cittadini. Ci troviamo in presenza, come si vede, di una nuova concezione dell’esistenza che, superando l’antica visione individualistica e aristocratica, assume connotati fortemente sociali e civili.



Torna ai contenuti