Pindaro 1 - Civiltà Greca

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Nascita: 517 avanti Cristo, Tebe - Morte: 438 avanti Cristo, Argo, Grecia
Pindaro e il suo tempo

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La Beozia, d’estate — la stagione vera della Grecia — è un’immensa ciotola gialla e tragica, tra monti dai nomi memorabili, feconda e brulla, dove il lago Copaide — da cui si recidevano le canne per i flauti — è scomparso e quello di Ilice s’affossa netto, irregolare e atroce come una piaga. Tebe (Tive) è un villaggio rozzo e afoso, i ricordi di Orcomeno o di Cheronea o di Già, un tempo sospesa sulle acque, sono sperduti nella calura. Il turista, quasi contento che non ci sia «niente da vedere», ha fretta di risalire gli orli della ciotola e di scorgere il mare o l’acropoli di Atene o Delfi.
Anche per un turista di due millenni fa, Strabone, Tebe non aveva «neppure l’aspetto di quello che si dice un villaggio». Né Pausania più tardi la trovò molto diversa. Eppure, con l’aiuto delle guide, girò la Cadmea dalle sette porte, ricettacolo di tante memorie, vide le tombe di Melanippo, dei figli di Anfione, il luogo del loro rogo dove ancora restava la cenere, le sepolture dei personaggi del teatro attico, Giocasta e Tiresia, Eteocle e Polinice ai cui riti funebri si ripeteva ogni anno, fedele come il miracolo di S. Gennaro, il fenomeno del fumo che si divideva. Molti i templi, nei dintorni, tra cui quello caro a Pindaro di Apollo Ismenio, con opere di artisti come Prassitele o Fidia. Ma ciò che contava di più erano i ‘luoghi’: dove Cadmo vinse il Serpe, dove sedeva la profetessa Manto, dove la terra inghiottì Anfiarao, e nessun animale veniva a brucarvi l’erba né alcun uccello si posava sulle colonne che delimitavano quello spazio. Al tempo di Pausania si confondevano le rovine già mitiche, come la dimora e il talamo di Alcmena, dove fu concepito Eracle, con quelle storiche come le tombe dei morti della guerra contro Filippo o della stessa casa di Pindaro, che Alessandro Magno aveva ordinato di risparmiare dalla distruzione.
Pareva e pare ancora questo il prodigio della Beozia. Gli scavi non offrono che ‘luoghi’. Non si trovano pietre squadrate e si può sospettare che le famose mura di Anfione non fossero che terrapieni; del resto quelle da lui mosse per magia — «col canto» —, indicate a Pausania, erano informi. La terra — la Dea Madre — è in tutto ed eguaglia tutto. Non c’è neppure la sublime civetteria delle solitudini della campagna romana al tempo di Goethe o di Micene già al tempo di Strabone. Terra bonaria e senza tempo dove l’Ismeno si perde nella sterpaglia e tra i pollai e la fonte di Dirce, conosciuta solo dagli abitanti più umili che non  si sono mai mossi di lì, si nasconde in un muretto di ciottoli come una serpe. Allora finalmente ci si può rendere conto di trovarsi in uno dei luoghi più segreti e spirituali d’Europa, nella Palestina della religiosità greca e veramente occidentale.
Qui nacque Pindaro, a Tebe, la «madre mia» come diceva, e che onorò sempre con fedeltà, dolore e orgoglio; o più esattamente a Cinoscefale, nell’immediata campagna, dove la famiglia avrà avuto le sue terre ed egli avrà eretto il sacello della Dea Madre dove officiarono le figlie. A Delfi si celebravano le Pitiche; «la festa del quinto anno» — così lui stesso immaginò il suo più antico ricordo — «con i suoi cortei di bovi, quando ebbi il primo nido tra le fasce, nell’amore». Era dunque l’agosto di quel deducibile 518 a.C.1 La famiglia era una delle più illustri di tutta la Beozia, gli Egidi, venuti da Sparta, poi ancora migratori ed «ecisti», in Laconia, a Tera, a Cirene, dove il ramo dei Battìadi sopravviveva a vicissitudini secolari (P. IV). Questo significava essere di sangue reale; il vero regno, come a Sparta, era fuso con il sacerdozio e non identificato con il potere. Il culto avito era quello di Apollo Carnèo (P. V, 79-81), del cui tempio di Tera restano i ruderi con graffiti del tempo di Pindaro, devoti ed erotici.

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Della parlata beote non restano in Pindaro tracce pure, e non è vero che «atticizzasse» troppo come diceva Corinna, la celebre poetessa di Tanagra; ma è vero che il linguaggio della poesia lo portò presto lontano. Le prime fonti della poesia erano in Beozia ma da secoli vi attingevano poeti d’altri paesi, e attualmente il maestro della lirica corale era uno ionio, il brillante Simonide di Ceo. Beote fu invece l’autore della Teogonia, la Genesi dei greci, Esiodo, lettura primaria come quella di Omero, ma più fidata. Nulla però lo formò come le memorie viventi, i segni di ciò che noi diciamo «mito» e che per lui e per tutti era semplicemente la verità, la «parola» che è il ricordo e il ricordo che è, come ogni verità, presenza. Il suo patriottismo restò sempre qualcosa di cultuale e di universale; Pindaro poteva sentirsi al centro dell’Ellade e perciò del mondo, come molti greci, ma con un certo privilegio anche rispetto la ben più potente Sparta e la progredita Ionia. La vicina Delfi era il centro anche geografico della terra. All’esterno, all’orizzonte, c’erano il grandioso e il favoloso: i regni d’oriente, la Lidia e l’Egitto, ora unificati nell’Impero persiano, e nell’occidente di Ulisse l’avventurosa Sicilia, gli Etruschi e i Fenici, le isole dei Beati, e le colonne di Eracle che rimasero sempre per Pindaro il simbolo del limite umano, e i remoti Cimmerii (i Celti?), ospiti di Apollo, dai quali
venivano ogni anno a Deio le offerte, avvolte nella paglia.*
Della sua prima giovinezza tebana restano pochi versi e alcuni aneddoti riguardanti sempre Corinna. Pare che la poetessa, bellissima donna del resto, non lo lasciasse in pace. Lo batté in gare di poesia (merito della bellezza, dice Pausania, o forse del purismo) ed è chiaro che quando rimproverò la collega Mìrtide di mettersi in gara con Pindaro — lei, «nata donna» — nascondeva una risata impertinente. Lo incolpò anche di fare poco uso del mito; Pindaro replicò con un inno a Tebe così copioso di mitologia che Corinna esclamò: «ma con la mano si semina, non col sacco!», al che Pindaro sbottò in un «porca beote! » che, in italiano, non suona bene. Ma è un esempio di traduzione come calco-errore. Non solo il porco non era nell’antichità animale discriminato, ma sia l’epiteto che l’ambiguo aggettivo erano condivisi da Pindaro, con suo vero sdegno (O. VI, 141-3). Rapporti allegramente borgognoni, com’è nello stile di certe vecchie aristocrazie.
Oltre i monti c’erano due grandi richiami: la sacra Delfi e la già intelligente, la già nemica Atene. Quando vi andasse Pindaro e quanto e come vi stesse è problematico, perché la guerra era scoppiata subito dopo le riforme democratiche di distene del 508 e durò incattivita per un numero di anni e con una conclusione che Erodoto si dimenticò di precisare.
 


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Ma non si può credere che Pindaro ci andasse prima, in età infantile; dovettero esserci schiarite che aprirono, almeno eccezionalmente, quei confini pieni di rancore comunale. Certo ad Atene ebbe il suo principale maestro, Laso di Ermione, riformatore del ditirambo, ricordato da Pindaro con considerazione. Vi conobbe forse Simonide e certo Eschilo, di cui ammirò «il linguaggio grande». Molte cose avrà ammirato ad Atene, e soprattutto gli ateniesi, la loro cultura acerba e pia, già protetta dai Pisistratidi, la loro «agorà tutta arte», come la evocò dopo la distruzione quando non poteva essere in gran parte che un indimenticabile ricordo.
Ma la rivoluzione democratica non possiamo pensare che l’approvasse: una ristrutturazione numerica, che ignorava i dolci legami feudali, le tradizioni senza tempo delle fratrie, perfino i patronimici, perfino il ritmo lunare dell’anno e il sacrale numero dodici sostituiti dal computo solare e dall’aritmetico dieci. Pindaro avrà ignorato queste anticipazioni della Convention e avrà continuato a vedere «l’altra» Atene. Ma, da ragazzo e dopo, avrà anche trovata naturale la crociata del vecchio mondo, Sparta in testa, braccio secolare di Delfi, contro quella città orgogliosa. È notevole tuttavia che non dicesse  mai una parola contro Atene. Potendo, loderà perfino gli Alcmeonidi, se non come democratici, almeno come esuli che avevano tanto operato per la ricostruzione del tempio delfico di Apollo distrutto da un incendio. Sarà felice, un giorno lontano, di poter celebrare Atene «cittadella dell’Ellade» e — finalmente — «divina».
Se di Atene fu ospite, a Delfi fu di casa. L’aureo particolarismo greco permetteva più patrie, e Delfi era quella della fede, era la città di Apollo, il Dio per cui aveva, osserva Jaqueline Duchemin, una devozione più segreta. Dobbiamo pensarlo nell’intimità sacerdotale degli hosioi («i santi»), partecipe dei segreti del santuario in cui il misticismo più sincero si fondeva con quella che diciamo la «politica», categoria di cui non solo Pindaro e il vecchio mondo, ma neppure i nuovi uomini che venivano creandola avevano la minima coscienza. Avrà partecipato alla trascrizione e alla delicata interpretazione dei messaggi del Dio, trasmessi dalla voce della Pizia. Ciò poteva far parte delle competenze di un poeta o, come ancora si diceva, d’un «cantore», aoidós. «L’esprit de Delphes», quella Empfindlichkeit, quel riformismo sottile e quasi inconscio, queH’illuminismo devoto, hanno influenzato e incoraggiato profondamente lo spirito e la poesia di Pindaro.


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