Introduzione - Civiltà Greca

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L’ultimo dramma di Sofocle, l’Èdipo a Colono, fu rappresentato postumo nel 401 a cura del nipote del poeta, Sofocle il giovine; è posteriore alle Fenicie di Euripide, di cui risente.
Èdipo, vecchio e cieco, in bando dalla patria, giunge a Colono, ridente sobborgo d’Atene; è sorretto dalla figlia Antigone, premurosa compagna del suo pellegrinare: un oracolo gli ha predetto che dovrà trapassare dalla vita nel bosco delle Eumenidi; il Coro di vecchi Ateniesi cerca di allontanarlo dal luogo sacro, poi si muove a pietà delle sue sventure. Ismene arriva ansante; annunzia la fiera discordia dei fratelli, Etèocle e Polinice. Mentre il re Tèseo garantisce al profugo ospitalità e protezione, e le figlie di Èdipo si recano a compiere un sacrificio, sopravviene Creonte a rapire il cieco; non vi riesce; impossessatosi di Antigone e Ismene, cerca di portarle via come ostaggi; Tèseo le salva. Le preghiere di Antigone inducono Èdipo a dare ascolto a Polinice, giunto a sua volta ad assicurarsi il possesso del padre, il cui corpo è ritenuto un pegno di vittoria nella guerra tebana. Èdipo tuttavia non si piega alle suppliche del figlio e alla sua tragica sorte; aspro e chiuso nell’ira lo maledice. Un tuono improvviso annuncia a Èdipo la chiamata degli dèi: il vecchio s’allontana con Tèseo; poco dopo un Nunzio reca notizie della sua arcana sparizione; Tèseo cerca di sopire il pianto delle figlie. Il motivo della magnanimità sventurata s’incarna nella figura di Èdipo e, non meno, in quella di Polinice. L’impressione dell’innocenza ignara dell’eroe, già viva nell’Èdipo re, si chiarisce qui nella discussa analisi di tutta una vita. L’eroe, ridotto una larva, teso e raccolto nella morte finalmente attinta, ripercorre tutti i suoi casi in una sorta di confessione, in cui la coscienza afferma, resoluta, la sua purezza. La sorte di Èdipo fu piuttosto patita che agita. Èdipo ha sì sposato la madre e ucciso il padre, ma il fatto non basta a configurare un delitto: neppure l’impurità obiettiva, evidente nelle orbite vuote, nell’obbrobrio del corpo contaminato, esclude la nettezza dell’intenzione.
Quando torna alla memoria, nei rinfacci di Creonte, il viluppo orrendo di colpe, risuona ancora la squillante affermazione del «delitto innocente». Un desolato, stremato nichilismo s’effonde in una sorta di litania del precario, che ha il tremito d’un canto esperto e dolente. Ma, accanto allo scoramento, è la tempra selvaggia d’un’anima che anche sul limitare della vita manifesta l’implacabile collera. Di qui la crudezza persino eccessiva di Èdipo verso il figlio, e un’accusa blasfema: che vale che gli dèi risollevino un vecchio, se si cadde da giovani?
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D’altra parte Èdipo non si vieta d’immaginare nel flusso delle cose un calore di sangue bevuto che ravvivi il suo stesso cadavere. Non diversamente magnanimo è Polinice, che, tra i personaggi minori di tutto Sofocle, è forse il più ricco di fascino umano e poetico. Basterà qui ricordare, nel suo eloquio sostenuto, preciso, ricco di risonanze, l’accettazione eroica e cupa del fato. E in lui la dura fernezza dell’oplita che l’affratella all’Etèocle dei Sette. Un filo d’amore lo avvince ad Antigone, come se il postumo vincolo della pietas, cantato già dal poeta nella remota tragedia del 442, sia qui visto in una prospettiva di vaghi presentimenti. Ma l’amore non vale a trattenere Polinice dalla china mortale: egli rivendica per sé, nel fluttuare del dèmone, la scelta inevitabile della vita maledetta: è fratello d’Aiace. Antigone è dipinta da Creonte con emozione pietosa: sempre sollecita del padre in un pitoccare ramingo, priva di nozze, preda forse del primo venuto; ma più la creano le sue stesse parole e i suoi gesti, dalla prima stupenda comparsa del gruppo dei due infelici nel prologo alla preghiera appassionata al Coro. Il pathos ripalpita in quel vano tendersi delle braccia d’Antigone verso il padre, mentre gli sgherri di Creonte l’afferrano, in quel brivido seguito da lamenti disperati delle due sorelle, nel commiato finale, in quel senso di vuoto, dopo la morte di Èdipo, che muove Ismene al desiderio di confondersi nel nulla col padre, e muove Antigone a un sublime rimpianto di sventure.
Concorde a tanta dedizione filiale è l’amore di Èdipo, che si stempera in una tenerezza di possesso.







Riappare la sapienza del contrasto, nei due diverbi di Èdipo con Creonte e con Polinice, paralleli e diversi, arricchito il primo dall’episodio del ratto delle fanciulle, interrotto il secondo dal tuono celeste che muta bruscamente l’aura della tragedia avviandola al compimento. Partiti scenici sono insieme risorse poetiche (il lungo silenzio di Èdipo di fronte al figlio); l’inquadramento della vicenda è stretto dalla consonanza fra il mistero religioso che la conchiude e la turbata atmosfera religiosa dell’inizio, così come l’ambientazione paesistica è ovunque presente e viva. I personaggi secondari sono singolarmente curati: sicuro, nobilissimo è Tèseo, fulgida amazzone è Ismene (descritta con vividi particolari dell’atteggiamento e dell’abito); persino il Coro ha nella prima parte caratteri realistici di personaggio, nella curiosità che si mescola alla pietà, nell’ansia di ricerca (che giunge a dargli una vivacità che si direbbe satiresca) e nella compiaciuta coscienza della sua atticità. Non mancano neppure i così detti «pezzi di bravura», i racconti densi di memorie, di fatti, di figure (tale può considerarsi in parte la tirata di Polinice che fa vivere i protagonisti della guerra dei Sette). Nella descrizione finale del Nunzio l’immagine del cieco trasfigurato che guida le figlie e leva, di là dal pianto e dalla collera, le sue pacifiche parole di verità, il sensibile inserirsi del divino nella vita che indugia, con l’appello d’una voce alta nel silenzio, la memoria del vago dileguare dell’eroe, non tocco da folgore né da marina procella, avviato da un fiato divino all’approdo d’una morte che non vuole lamenti, dànno alla pagina un fascino profondo e indelebile.




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