Pitica III a - Civiltà Greca

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V

Strofe

che a luce die’ Tebe l’equestre, dove io l'acque limpide bevo,
pei prodi intrecciando la varia
corona degl’inni. — Su, sprona i compagni,
o Enea, che pria cantino d’Era Partenia, e poi tentin la prova
se noi con verace parola l’adagio vetusto d’ingiuria,
la scrofa Beozia schivare possiamo: ché araldo sincero
sei tu delle Muse, cratère soave d’armonici canti.


Antistrofe

Ortigia di’ pur che ricordino, di’ pur Siracusa. Lo scettro
qui tiene incorrotto Ierone,
che alberga nel cuore pensier’ di giustizia,
e onora Demètra dal sandalo roggio, e la figlia dai bianchi
corsieri, e la forza di Giove signore dell’Etna. Lui sanno
le lire soavi ed i canti. Il tempo futuro che repe
non franga il suo bene; e con animo cortese egli accolga quest’inno

Epodo

che per Egesia, lasciata l’Arcadia ferace di greggi,
vien dalle mura di Stínfalo, vien da una patria a una patria.
È bene, se infuria notturna burrasca, gittar dal naviglio
due ancore. A questi ed a quelli dia prospera sorte un Celeste. —
Del pelago re, d’Anfitrite dall’aurea rocca consorte,
Signore, una rotta sicura, lontana da tutti i perigli
m’arrida: e dei cantici miei l’amabile pianta fiorisca.
Spiegazione del mito

Agesia era amico e indovino di Ierone, ed anche suo generale, come si vede dal confronto istituito in quest’ode fra lui ed Anfiarao (v. 12 sg.). Apparteneva alla famiglia degli Iamidi, che avevano ereditaria la gestione d’un oracolo in Olimpia, e che dal lato materno discendevano da signori del monte Cillene, in Arcadia. Lo scoliaste dice che s’ignora la data di quest’ode; ma dalla riflessione che è un bene per Agesia avere due patrie, Siracusa e Arcadia (v. 98 sg.), si può indurre che i tempi non fossero sereni. Agesia fu ucciso nei tumulti che seguirono la morte di Ierone: è ovvia l’idea che l’ode fosse composta poco prima, dunque nella olimpiade 78, 468 a. C. — Eccone il piano.
«Voglio incominciare con un esordio solenne. Agesia ha vinto in Olimpia: è ministro, in Olimpia stessa, dell’ara di Giove: è figlio di Siracusa» (v. 1-9).
Ora conviene risalire sino alla stirpe originaria di Agesia, cioè degli Iamidi: è lungo viaggio: occorre un cocchio: ben possono servire le mule che vinsero nella gara: e Fíntide, l’auriga, le aggioghi (v. 22-28).
Ed ecco la origine degli Iamidi. Posidone, dio del mare amò Pitane, ninfa che dimorava nella terra che prese poi il suo nome, accanto al fiume Eurota. Dal connubio nacque una fanciullina, Evadne, che la madre mandò ad allevare al re d’Arcadia Apito. Evadne, cresciuta, fu amata da [p. 126 modifica]Apollo, generò Viamo, e lo abbandonò sotto una macchia. Apito, che intanto era andato a Delfo a consultare l’oracolo, tornò cpn la notizia che il pargolo era figlio d’Apollo. Ma il pargolo non c’era più. Lo cercarono, e lo trovarono sotto una macchia, dove da cinque giorni lo nutrivano miracolosamente due dragoni. Lo coprivano viole: e da esse derivò il suo nome. Quando fu cresciuto, Viamo ebbe dall’avolo Posidone e dal padre Apollo un duplice dono attinente all’arte profetica: di udir subito il futuro da una voce veritiera; e il diritto, quando Eracle avesse fondato i giuochi in Olimpia, di stabilire qui un oracolo. Da questo Viamo discesero gli lamidi, famosi in tutta l’Ellade (v. 29-70).
Lodi ed auguri per gli Iamidi. — Essi hanno trionfato nel cimento, quindi si sono attirate molte invidie. Ma li protegge Ermete, signore d’Arcadia, al quale sul monte Cillene i loro avi materni fecero tanti sacrifizi. Anche Mètopa, avola di Pindaro, era nata a Stintalo, sotto il monte Cillene (v. 74-86).
Esortazioni ad Enea (il corifeo?), che inviti i coreuti a sbugiardare col canto il vecchio vituperio che si rivolgeva ai Beoti d’essere stupidi, e a cantare Era partenia, Ortigia e Ierone. E Ierone accolga di buon animo quest’inno (v. 86-97), che giunge ad Agesia dalla sua vecchia patria, l’Arcadia, alla nuova, Siracusa. Bene che in tempi burrascosi ne abbia due.
Invocazione a Posidone (v. 102-104).
Come nella Pitia VI (v. 15) ad un tesoro che mostra al sole la sua facciata, cosí qui l’inno è paragonato ad una reggia ; il suo principio è come l’ordine di colonne che sta sul davanti (v. I -4). — Come noi diciamo: trovarsi in questi panni, i Greci dicevano: avere il piede in questo calzare. — L’idea di lanciarsi con le mule per attraversare, oltre che lo spazio, anche il tempo (v. 22 sg.) è strana: di gusto [p. 127 modifica]discutibile scegliere per tale viaggio le mule che hanno vinto; e osservo questo, perché il lettore moderno sappia che Pindaro concepí e disse proprio cosí. — Pitane, al solito, è tanto la Ninfa quanto la località che ella protegge. Naturalmente, questa diede origine a quella; ma la leggenda antica narrava il contrario. — La famosa immagine della cote e della lingua (v. 82) è più chiara che non sembri forse ai commentatori. Come nella Pitia II (v. 112) la lingua si deve batter su l’incudine, sí che ne riesca ben temperata, al pari di un brando, cosí qui essa è sfiorata da una cote, si che ne riesce, come una spada, affilata. — Chi sia l’Enea del verso 87, si capisce poco; e tralascio un indovinello connesso ad un epiteto dato a questo Enea: la mia traduzione dice senz’altro a quelli del mestiere come io intendo. — A significare la grossezza dei Beoti, i Greci dicevano spicci spicci: Beozia porca! (v. 88). — il poeta immagina poi che il tempo futuro scivoli contro il presente, e non già che questo corra a perdersi in quello. —
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